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Recensione: Il bambino senza nome di Mark Kurzem

Come promesso, ho letto uno dei libri di cui ti ho parlato in occasione del Giorno della Memoria (in questo post, ricordi?) e anche se sono un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, oggi sono qui per raccontarti quello che ho scoperto.
Il libro che ho scelto è Il bambino senza nome, di Mark Kurzem. Non era esattamente il libro a cui ero più interessata, ma avendolo in casa è stata forse la scelta più comoda, e tutto sommato non me ne sono pentita, anche se non sono stata pienamente soddisfatta. Ora ti spiego il perchè.

Il bambino senza nome di Mark Kurzem

Mark Kurzem è nato a Melbourne, in Australia. Dopo aver completato gli studi, si trasferisce prima a Osaka, e in seguito a Oxford, dove fa il ricercatore (presumo) in cultura giapponese. Da quanto sono riuscita a capire, Il bambino senza nome (The Mascot in lingua originale) è il suo unico libro, in cui racconta la storia del padre e di cui ha prodotto anche un documentario nel 2002. E’ morto nel 2010 per complicazioni dovute al diabete.

Il bambino senza nome narra la storia di Alex Kurzem (versione anglicizzata di Uldis Kurzemnieks), padre dell’autore, e della sua infanzia durante la Seconda Guerra Mondiale. Da piccolo Alex ha visto il massacro del suo villaggio ad opera dei soldati lettoni, e dopo aver vagato nella foresta per non si sa quanto tempo, viene catturato da un battaglione. Sta per essere fucilato, ma quando si lancia in avanti chiedendo del pane ai soldati, uno di loro, chissà perché, decide di risparmiarlo. Il piccolo viene adottato dai soldati, e con il passare del tempo si trasforma in una piccola mascotte nazista.
Passano gli anni, Alex diventa grande e alla fine della guerra emigra in Australia con la sua famiglia adottiva. Si sposa, ha tre figli, e nessuno conosce la sua vera storia. E’ solo nel 1997 che si confida con suo figlio Mark, che gli racconta quello che ha visto e che ha passato, e quei pochi ricordi che ha della sua famiglia. Alex, infatti, ricorda solamente due parole, Koidanov e Panok. Nient’altro, neanche il suo nome, e i ricordi degli avvenimenti sono confusi.
Comincia così per i due una ricerca che li condurrà a scoprire qualcosa di più sulle loro origini.

Pubblicata nel 2007, la storia di Alex Kurzem ha fatto il giro del mondo, scatenando non poche polemiche. Sono stati numerosi quelli che hanno messo in dubbio la sua storia, e posso solo immaginare quale sia stata la pena di quest’uomo che ho imparato a conoscere e ad apprezzare. Alla fine, nel 2020 un test del DNA ha confermato le scoperte fatte da Mark e Alex sulla provenienza di quest’ultimo, dando veridicità alla sua storia.

E’ difficile giudicare la trama di questo libro, proprio perchè si tratta di una storia vera, ma su una cosa sono sicura: poteva essere raccontata meglio.
Girovagando tra le critiche su Internet, ne ho vista una che diceva, in parole povere, che Mark passava dal romanzo al testo giornalistico senza decidersi tra i due, e secondo me è la grande pecca di questo libro. Più che concentrarsi sulla storia di Alex, si concentra sul rapporto tra l’autore e il padre, e come sia cambiato in seguito alle rivelazioni di quest’ultimo, creando delle fratture nella storia raccontata da Alex che spezzano il ritmo e non aiutano a empatizzare con lui. La sua storia è piena di elementi tragici e drammatici, ma proprio per come è stata raccontata è difficile provare simpatia: d’altro canto, non è neanche un vero saggio, in quanto, a parte quei pezzi di storia che più riguardano le vicissitudini di Alex, non c’è grande approfondimento. Insomma, come testimonianza storica può essere interessante, ma come lettura lascia un po’ a desiderare.

In sostanza, si tratta un po’ di un’occasione perduta: la lettura non è spiacevole, ma non lascia granchè. E anche nel caso uno stesse facendo una ricerca su quel determinato periodo storico, può essere utile fino a un certo punto.

Titolo: Il bambino senza nome
Autore: Mark Kurzem
Prima pubblicazione: 2007
Pagine: 446
Editore: Piemme
Voto: 3/5
Link Amazon: qui
Link Goodreads: qui
Canzone ideale: Father and Son – Cat Stevens

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